mercoledì 24 giugno 2009

My elderly GrandPa said to my young Father that ...

In fondo c’è sempre da imparare dalle persone.
Anche dalle più sgradevoli.
Queste ultime, ad esempio, mi hanno insegnato a capire chi non voglio essere. Che è già tantissimo. Perché è proprio difficile capire ciò che si è. Passati anche i 40.
Ancora di più ciò che si sarà. Passati anche i 40.
Nel mezzo ci si arrabatta tra la spinta ad essere quello che ci si crede di essere, quello che si vuole essere che è un tendenziale infinito .. una specie di chimera, e tutto le altre 1000 deviazioni che è giusto fare perché ogni lasciata è persa.
Non ho conosciuto mio nonno paterno. Era un agricoltore che lavorava la propria terra. Credo che fosse un tipo piuttosto rude e poco incline al discernimento. Una mente semplice suppongo. E’ morto 11 anni prima che io nascessi. Avevo intorno ai 10 anni more or less quando mio padre mi raccontò, in una delle rare occasioni in cui parlavamo, una sua storiella che ora non ricordo bene. Non era una favola, se non per il fatto che non era vera: credo si potesse considerare una specie di pretesto romanzato, travestito da vicenda familiare, per poter arrivare ad un insegnamento etico. Quello che nella Bibbia, nei Vangeli per essere più precisi, chiamano parabole.
Ecco io ricordo solo la fine. Ovvero ho dimenticato il mezzo che avrebbe dovuto farmela ricordare.
Nonno raccontava a babbo che il valore di un uomo lo si misura dalla camicia che si toglie la sera. Se è bella sporca e sudata, pregna di tutte le esperienze che la giornata gli ha donato, significa che chi l’ha indossata ha cercato di dare un senso al suo vivere e che molto probabilmente questo lo renderà una persona di valore. E si addormenterà , anche se sconfitto dagli eventi, con la pace dei giusti nel cuore.
Se invece, quella stessa camicia, alla fine della giornata la puoi ripiegare tranquillamente perché profuma di bucato, ha ancora il colletto intonso ed inamidato … beh con ogni probabilità la vita ti scorre vicina ma non ti tocca. Forse te stesso per primo non dai valore a ciò che sei e di conseguenza non lo puoi dare agli altri.
Sicuramente in un ambiente contadino tutto questo ha un senso più immediato perchè è assolutamente reale e tangibile. Penso tuttavia che lo possa avere in qualsiasi contesto. Anche se si lavora in ufficio con l’aria condizionata o, come stamattina, si sta iniziando la maturità.
Anzi, a dirla tutta, trovo che sia una metafora che si addice benissimo anche al mio amato gioco del rugby. Quando il capitano consegna la maglietta, prima della partita, ci si guarda negli occhi. Mai tenere la testa bassa. Ci si stringe forte la mano in modo tale che sbianchi, che un po’ di dolore ti rimanga appresso e ti faccia provare, anche qualche istante dopo, che c’è stata una stretta vigorosa. Uno scambio di forza reciproco, un trasferimento a doppio senso fatto di volontà e di impegno. Una sorta di: Io ci sono, tu ci sei, tutti insieme siamo. Poi, mentre stai per uscire, il salto-spalla-spalla alla gorilla nella nebbia per dare e per ricevere coraggio. Hai una maglietta che ti concede un’opportunità. Una possibilità che nella vita hai generalmente tutti i santi giorni. Quando la restituirai, lanciandola dentro il cestone con le altre, molto probabilmente sarà molto pesante, sporca e sudata come è giusto che sia. Magari non avrai fatto le scelte migliori. Probabilmente avrai fatto degli errori. Come tutti. Può darsi addirittura che per una serie di ragioni tu non sia nemmeno entrato in campo ... che tu sia rimasto a bordo vita a scaldarti senza mai poterti confrontare con l’avversità del giorno, sostenendo chi le sta affrontando anche per te. Ma è quello che lasci su quella maglietta che ti qualifica. Che tu abbia agito male o bene. In fondo potrai essere stato anche sgradevole. Ed è meglio sperare che chi davvero ti vuole bene, che sia partner, amico o compagno di squadra, te lo faccia sempre presente.
Ecco, mi auguro di non ridurmi ad indossare oggi la stessa camicia che portavo ieri perché sembra pulita. Spero che stasera sia sporca lorda, logora e strappata al punto tale che l’unico dubbio che vorrei avere sia quello di gettarla dentro nel cestone o nel cestino. Magari sorridendo.

lunedì 22 giugno 2009

The box jellyfish

Un ginocchio che non funziona del tutto è come uno di quei passeggini tradizionali per bambini con una ruota bloccata nel verso sbagliato o rotta o addirittura assente. Parlo dei classici a 4 rotelline. Ci stanno pure quelli moderni e ggiovani a 3 ruote giganti che mi dicono funzionare meglio sullo sterrato, nella sabbia o con fondo paludoso e hanno una specie di servosterzo incorporato. Ma mi sto riferendo proprio a quelli con le ruotine piccole che si infognano in ogni buca e che insegnano alle mamme tutte le bestemmie del mondo quando scarrozzano i loro pargoli sui sanpietrini del centro. Comunque, ciò che volevo dire, è che la carrozzina a 4 ruote quando ne ha una non funzionante va avanti lo stesso. Si può spingere, girare, tirare, anche riempire di bambini e di borse della spesa se è proprio necessario. Certo è importante distribuire bene il peso come quando si carica la roulotte prima di partire per le vacanze. Avanti: magari un po’ traballando, come un diesel non riscaldato che non si ferma se non per riprendere fiato. Ecco la sensazione è un po’ quella: posso fare tutto ma quel tutto lo faccio un po’ male, un po’ claudicante, un po’ in ritardo e un po’ sofferente. Per contro sto attraversando un periodo in cui tutto sommato non mi dispiace sudare … in the end, ogni male, dal più intenso al meno sentito, ha sempre un side in qualche modo positivo … c’è sempre un lato giusto anche nella moneta sbagliata, c’è sempre una mano che dà, dietro quella che toglie … Beh, sul dolore, vediamo …ecco sul mal di denti, riflettendoci bene, potrei avere delle riserve. In any case, smile and keep strong.
Tornando dal lavoro, in questo periodo di leggera semi-infermità fisica (per quella mentale parlare di periodo è voler usare un eufemismo), ho meno “voglia” di uscire anzi … non vedo l’ora che qualcuna mi dia una borsa di ghiaccio da mettere sotto l’incavo del ginocchio sinistro, che mi scarti il ghiacciolo alla amarena-menta-limone-cola che sia, mentre allungo il resto di me sul divano di fronte alla 34’. Per inciso: ho fatto una scoperta sensazionale. Non riesco a tirare bella dritta la gamba perché il ginocchio raddrizzato non raggiunge i 180° d’angolo ma si ferma prima, che ne so, a 140° … L’ideale è infilarci sotto un cuscino imburrato di cristalli di ghiaccio. Lei fa sparire tutti i cuscini perché “non puoi macchiare il divano” (che cazzo abbiamo preso quel rivestimento proprio perché lavabile, sfoderabile e tutto il resto??? Umpf!) e immagino già quando si trasformerà nella mamma di Tony Soprano e metterà la plastica sul divano. Ora, la mia attenzione è stata catalizzata dal copriletto/piumino primaverile che avevo ritirato dalla pulitura qualche settimana fa. Evitando di soffermarmi sul colore rosso bordeaux fingerato di linee blu di Prussia irregolari, ho capito che essendo il tutto ben incellophanato e chiuso ermeticamente, poteva trasformarsi in qualcosa di utile prima della prossima primavera. Un morbido e paffuto cuscino idrorepellente, morbido e che è veramente fittier con il mio angolo ginocchiesco a 140° d’ampiezza. Direi: una di quelle cose non cambiano la vita ma la rende un po’ meno complicata.
Quando la mobilità è messa un po’, come dire, in discussione, sicuramente rimangono poche cose potenzialmente interessanti da fare: dormire, navigare, guardare film, TV, leggere. Ok ce ne saranno altre ma queste sono le prime opzioni che mi sovvengono. Leggere è bello ma è un po’ isolazionista. E’ ok per una serata ma soprattutto lo puoi far prima di addormentarti a letto. TV: ok se c’è qualcosa di interessante … i canali 200 e qualcosa in qs periodo non sono male tra Lions in tournee, test match vari, Irb Nations cup, l’under, confederation cup ecc. al limite c’è sempre l’ancora di salvezza dei 400 e rotti. Lì c’è sempre qualcosa di interessante. Ma non basta. Allora Blockbuster e che non se ne parli più. E i canali 300 e qualcosa? Beh li sto stupidamente boicottando … perché per disdire Sky cinema devi avere la firma di Gordon Brown, l’avvallo di Sarkozy e una raccomandazione della Merkel mentre per sottoscriverlo puoi farlo anche parlando al telefono con una voce elettronica che ti dice:’”digiti 1”?. Sabato all’alba, quando sono tornato da un finto allenamento che era solo la scusa per mangiare risotto al tastasal e fare un po’ di baldoria da seduto con la squadra, pur essendo a little insane, non avevo sonno. Lei mi ha portato comunque il ghiacciolo anche se erano le 3 del mattino. Mi ha invitato con perentoria dolcezza di trattenermi sul divano ancora un po’ perché, della serie con l’andazzo che hai, è meglio che mi addormenti prima io invece che ascoltarti mentre ti addormenti tu.
Allora decido di metter su un movie. Uno di quelli “novità 2 film per 3 serate a 5 euro”. Si intitola “Seven Pounds” ovvero “Sette Anime” ma non capisco … non vuol dire sette sterline? Perché non 7 Souls? Vabbè il mio inglese è come il mio ginocchio. Latente ed imballato. Era da un bel po’ che non vedevo un film inaspettatamente coinvolgente. L’argomento è tosto e mi tocca un po’ disgraziatamente da vicino anche se non direttamente. Sicuramente questo qualcosa influenza il mio giudizio.. Regia di Muccino per il quale non mi sono mai strappato i capelli dall’entusiasmo. In questo caso ha fatto un ottimo lavoro. Mi piace che riprenda spesso il protagonista dalla nuca per darci sempre la sua prospettiva, mi piace che sfuochi l’immagine quando deve e che non calchi la mano nei particolari più strazianti. Spesso rimane un po’ distante e fuori asse come per documentare ma non spiegare, per far vedere ma senza essere visti, per contemplare senza invadere. In “The Pursuit Of Happyness” m’era piaciuto per quanto fosse stato più diligente che bravo. Ho simpatia di un italiano che sfonda ad Hollywood. Un po’ come per Scalia al montaggio, la Lo Schiavo con Ferretti nelle scenografie e Morricone nelle colonne sonore. A proposito di quest’ultimo: sono rimasto davvero sorpreso nel constatare che una delle musiche principali di 7P sia il main theme del film “La Leggenda del Pianista Sull’Oceano” che dal punto di vista musicale è un capolavoro (per me la sua migliore OST con “C’era Una Volta In America” anche se ne ha composte dozzine di eccezionali).
L’attore principale è Will Smith che apprezzo da sempre. Provo per lui una naturale simpatia. E’ un attore interessante sin da quando faceva lo stupido di Bel-Air . Me lo ricordo in “6 Gradi di Separazione”, o nella fanta-catastrofo-americanata di “Independence Day”, i 2 MIB, in “Ali”, in “Hitch”, vabbè ne ha fatti un casino … però è sempre particolare, mai scontato e non è di quelli tutti impostati (bravissimi per carità) alla Actor’s Studio e il Metodo, per capirsi.
L’attrice principale è Rosario Dawson che oltre ad essere una ragazza bellissima (di quella bellezza che te lo fa rizzare, per capirsi) ..ha questo nome così … insomma era destinata a recitare e ad essere recitata anche se non in chiesa. Ha una parte veramente forte e mi sembra strano che non se la sia accalappiata qualcuna tipo la Cruz, la Roberts, la Theron o la Jolie.
Il film è particolare: c’è tanta tristezza ma anche tanta speranza. C’è una sciagura. C’è un uomo con la sua colpa infinita. Una donna picchiata dal convivente. Un cane cavallo vegetariano. Una villa sull’oceano. Un allenatore di una squadra di latino americani di hockey sul ghiaccio e in dialisi. Un fratello con gli occhi azzurri. Un cieco pianista. Un’assistente sociale riconoscente. Una stampatrice di biglietti d’auguri dal cuore debole. Una cubo medusa. Un bambino leucemico. Una vecchia che vuole dignità ma che ha scelto il silenzio. Un ingegnere di navi spaziali. Un esattore del fisco. Ci sono un sacco di bei momenti o perlomeno che mi hanno colpito con una certa perentorietà. O forse è solo che ero pieno. Alla fine però eravamo in due sul divano il mattino dopo e il ghiaccio era proprio sciolto. Ma non ho sporcato il divano.
Telefonata iniziale del film prima del titolo:
911 Emergency
I need an ambulance
I have you at 9212 Third Street in Los Angeles
Yes, room number 2
What’s the emergency?
There’s been a suicide
Who’s the victim?
I am

venerdì 19 giugno 2009

La leggenda del nodo d'amore

Discorrendo d’amore e dintorni.
Un paio di giorni fa ho partecipato ad una specie di banchetto serale alquanto speciale.
Speciale perché completamente all’aria aperta.
Speciale perché la tavola dei commensali era lunga centinaia di metri.
Speciale perché c’erano migliaia di persone.
Speciale perché consumato su un ponte, visconteo per giunta (well, una super cuoca che conosco avrebbe qualcosa da obbiettare maybe, probably and perhaps).
Speciale perché il piatto principe era il tortellino. Rigorosamente fatto a mano.
Il luogo è Borghetto di Valeggio sul Mincio. E’ un posto davvero incantevole. Molto romantico. A tal punto che c’è una bellissima leggenda che racconta di un amore bello e sfortunato che fa da contraltare alla ben più famosa vicenda di Giulietta e Romeo. Ora, prima di raccontare questa storia è bene sapere che c’è una disputa centenaria sulla paternità del tortellino. Qual'è stato l'Alpha Dog del tortellino? Quello di Valeggio? Quello di Bologna? Quello di Modena? O l'equiparato tortello mantovano? O quelli che avevano dei nonni canterini umbri, i cappelletti di Reggio Emilia? O quelli che gli è andata di culo. gli anolini di Parma? A me non me ne frega niente di questa querelle. Li mangerei tutti: dal primo arrivato all’ultimo. Perciò non entro nel merito … anche se ho una certa campanilistica preferenza per la pasta sottile dei tortellini di Valeggio. A dirla tutta, secondo me, che ho un palato fine come il mio girovita, sono prodotti piuttosto diversi, almeno per come li conosco io perciò …che avranno da questionare?Mah! Si insomma tutto questo solo per dipingere il contesto.
Valeggio vive di ristoranti: 40 più o meno per poco più di 13mila abitanti. A Verona non sei sposato se non hai fatto il pranzo nuziale a Valeggio e non hai fatto le foto al Parco Sigurtà … naturalmente a Valeggio. :D Non è vero ma, ripeto, è solo per sverniciare di brutto il background transazionale.
La storia d’amore dicevo.
La leggenda vuole che le acque del Mincio, il fiume del paese, fossero allietate dalla presenza di ninfe bellissime che danzavano in prossimità delle rive. A causa di un’antica maledizione però, queste povere criste furono costrette ad assumere le sembianze di orribile streghe. C'è una logicità in tutto questo che ha dell'inverosimile. Comunque fin qui potrebbe sembrare un video di Prince. In un periodo non ben definito ma, arguisco intorno al '300, un valoroso capitano con il suo esercito si accampò poco distante dalle signorine. Tutti stavano dormendo tranne il nostro che si destò di soprassalto e improvvisamente decise di affrontare, armato di tutta la sua virile e legnosa vigorosità, le terribili creature. Il suo nome era Malco. Ed è lui il Leonardo DiCaprio della situazione. Le misteriose arpie, spaventate da tanto selvaggio ardore, fuggirono dal maschio al tempo ahimè dominante. Tuttavia, la più leggiadra di queste, venne raggiunta mentre stava disperatamente tentando di fuggire. Ovvero era rimasta ferma come si usava all'epoca. Nella tipica amorevole colluttazione, che fa i due già protagonisti della storia d’amore, la brutta strega perse il mantello che sino a quel momento aveva celato la sua vera identità al prode capitano e si rivelò in tutta la sua incantevole e prorompente bellezza. Ovviamente i due scoparono. Forsennatamente. E più volte. Ma che ne sarà di loro al volgere del giorno? La dolce ninfa, che si chiamava Silvia, ma non è quella che rimembrava ancora quel tempo e che nemmeno soleva menare il giorno, doveva ritornare nelle profondità del fiume prima del sorgere del sole perché non poteva farsi vedere insieme agli uomini e non aveva il permesso di soggiorno. Mentre la mano sua abbandonava inerme l’amato Malco (che dopo aver copulato prenderà il nome di Marco il trapano, Strano di cognome, noto in tutta Italia – in Lombardia soprattutto - e che ora usa un cognome falso anagrammato)...dicevo … è risultato da subito chiaro che tra i due era nato l’amore, quello con la A maiuscola e che dura per sempre. E’ il climax della storia: dove è sempre meglio avere a portata di mano un durex. L’alba stava sorgendo e con lei la promessa tra i due di eterna fedeltà, delle rate del mutuo, della villetta con giardino, dello steccato bianco, della station wagon con le fiancate tinta legno e i seggiolini dei bambini fissati dietro (un maschio e una femmina ma è meglio la femmina prima che quando è più grande aiuta la mamma nei mestieri di casa) … Insomma un richiamo irresistibile: Silvia, l’infoiata, lasciò a Malco, lo svulvatore, quale pegno del suo amore, un fazzoletto teneramente annodato.
Più moscio del kleenex d'antan che teneva in mano, il prode guerriero sembrava destinato ad una vita di sofferenza e di massaggi personali. Invece, come in ogni leggenda degna di questo nome, accadde che durante una festa danzante, la sua Silvia, vincendo la sua ex virtuosa ritrosia, affrontò, come la più sensuale delle ballerine del Moulin Rouge e pronta a tutto, il mondo degli uomini. Malco, per tutto il tempo rimase a fissarla con lo sguardo tipico del noto pesce gatto del Mincio, innamorato perso e sepolto come uno smarties nel Müller. Tutto questo non sfuggì però a Isabella, una nobile dama che aspirava all’amore del capitano. E se proprio dobbiamo dirla tutta, aspirava anche il resto. Gelosa come può esserlo solo un'amata tradita, Isy denunciò la ninfa come strega alle autorità competenti. Anni dopo, come sapete (non c’entra nulla con la leggenda), Isy ispirerà la più nota cantante al mondo di Valeggio, italiana ma che fa Spagna di cognome, e che comporrà la famosissima canzone dance 'Isy Lady', vestendosi esattamente come il capitano Malco.
Torno alla storia. La bella Silvia venne arrestata ma il veemente Malco (si dopo due ore di danza della Silvia non ho difficoltà a crederlo veemente) pose se stesso a scudo dell’amata, proteggendola in modo tale che lei stavolta riuscì a fuggire (di solito queste eroine sono delle imbranate pazzesche a togliersi dei guai). Ovviamente si bruciò qualsiasi aspirazione di tipo carrieristico nell’esercito. Destinato ormai a ferrare, vita natural durante, il destriero di quella incapace della Luigia Pallavicini, una zoccola che pare cadesse sempre da cavallo, venne incarcerato.
Isy Lady andò a trovarlo in cella: era pentita come una sgualdrina che ha ceduto all’amica di bocca buona il primo Richard Gere alla guida di una Ferrari in Sunset Boulevard. Era tormentata dai sensi di colpa per il suo gesto e anche per aver dimenticato la spirale, e invocò il suo perdono quantunque un po’ di comprensione non guasterebbe. Ma in quel mentre riapparì Silvia, la pettoruta amante del Malco, che defenestrò immediatamente la basta-che-me-la-chiedi Isy che finirà col riprendersi solo nei primi anni Ottanta.
Purtroppo i due innamorati erano sprovvisti di veleno: è questo, secondo me, il punto chiave che non lì renderà famosi come i Montecchi Copulati.
Si resero conto che il loro amore non aveva scampo sulla Terra. Del resto Star Trek e il teletrasporto erano ancora di là da venire. Mentre Malco, nel frattempo, era già precocemente venuto di nuovo. Anyway, il loro destino era legato al fiume che li aveva fatti conoscere. Scapparono mentre gli inseguitori venivano trattenuti da Isy, la pentita, che chiese loro di portare rispetto e comprensione ad un amore senza limitazioni. La user-friendly Isy, ormai redenta nell’animo, capì che le sue argute motivazioni non venivano assolutamente prese in considerazioni e perciò trattenne gli inseguitori abbassando una spallina. A questo punto Silvia e Malco si tuffarono nelle acque del Mincio. E nessuno li vide mai più. Sulle rive del fiume fu trovato abbandonato un fazzoletto di seta dorata, simbolicamente annodato dai due amanti per ricordare il loro eterno amore.
Ora che cavolo c’entra il tortellino con questa storia?
Tuttora ricordano che le donne del tempo, nei giorni di festa, avessero voluto perpetuare la storia dei due innamorati, matterellando una pasta sottile sottile come la seta, tagliata e annodata come il fazzoletto d'oro e arricchendola di un delicato ripieno.
Fu così che nacque la leggenda del tortellino di Valeggio.

giovedì 18 giugno 2009

+icted 2 love

L’uomo, all’apparenza, sembra avere 50 anni. Portati decisamente male.
E’ probabile tuttavia che all’anagrafe ne risultino non più di 35. La donna dimostra la stessa età . 35 anni intendo. Vestiti come nessuno vorrebbe mai essere vestito. Sporchi di uno sporco antico. Sorridono entrambi avvicinando i denti tra loro. Almeno, con quello che di denti è rimasto loro in bocca. Sono accasciati per terra con la schiena appoggiata al muro fuori dalla porta del fornaio. Danno l’idea di due tovaglioli di stoffa abbandonati sullo schienale della sedia al ristorante dove aver finito di mangiare. Stropicciati e bisognosi di una lavatrice. Tutte le mattine il panettaro del Mulino bianco allunga loro delle ciabatte appena sfornate. I due hanno steso un vivace plaid che, anche lui, non vede un detersivo da quanto è stato creato. Quella coperta è però quanto serve per separarli da tutto ciò che il marciapiede accoglie. La via è completamente alberata. E rigogliosa. E verde lussureggiante. E leggermente danzante. E’ una delle mie strade preferite in estate perché da refrigerio solo a guardarla. La scena è alquanto suggestiva perché il sole penetra esattamente laddove loro hanno posato le loro terga. I due sono illuminati da questa luce gentile, tiepida e amabile come lo è solo al mattino quando il mattino è bello. Si stanno guardando in faccia e continuano a sorridere. Una signora cammina veloce e passa oltre stringendo più forte la borsetta a sé. Guarda tenendo gli occhi ad ore 17 con un misto di compassione e di disapprovazione che mi ricorda la mamma di Harry travestita da giudice dell’Unione Sovietica e che dà un bel 4 alla prestazione del figlio. E’ senz’altro l’unico luogo veramente caldo della via. E’ chiaro che sono messi male. Ed è insolito incontrarli perché i barboni, da qui, sono quasi spariti. Sono abbracciati. Si guardano negli occhi continuamente come se il non vedersi significasse non esistere. Io continuo a passeggiare rallentando il passo ma non riesco a togliere la mia innocente curiosità dal loro intimo accogliersi. Sembrano volersi bene. Lei sta lacrimando. Lui non lo vedo in faccia. Non è disperazione. Non credo sia felicità. Forse è una specie di serena tranquillità che emoziona tra una dose e l’altra. Non lo so proprio. Sono legati reciprocamente da un laccio emostatico ma voglio pensare, mentre passo oltre, che sia qualcosa di molto vicino all’amore.

mercoledì 17 giugno 2009

'Soga' da celtic

La cosa ha funzionato più o meno così.
Un triangolare con partite da 40 minuti, giocate a partire dalle ore 10.30 sotto un sole cocente. Un caldo afoso senza vento. Avevo i miraggi di solitari tumbleweed rotolanti in lontananza. In compenso il campo era proprio d’erba verde (non ci sono per niente abituato). Dopo tale pazzia che ci ha resi un po’ tutti vicini alla consistenza di un peperone rosso tagliato fine e scottato sulla padella antiaderente con un filo d’olio extravergine, dicevo, ci si è finalmente ritrovati a pasteggiare con ‘lo stracotto de caval’. Dunque e direi pure quantunque, io non ho mai voluto mangiare carne di cavallo. Una scelta, per certi versi insulsa come fare i fioretti dopo aver peccato, dettata semplicemente dal fatto che per me i cavalli sono degli animali troppo speciali. Non esiste mangiare il cavallo. Te majo te piuttosto! C’è una macelleria di carne equina fantastica (così dicono) a 2 passi da casa mia. Vengono addirittura da fuori provincia. Beh, se dipendesse da me sarebbe già fallita da un pezzo. Ma come ho già detto … è successo. Spero che Furia, il cavallo del West, nonché mio idolo di quando ero ancora un monello giustificabile, mi perdoni. Lui e il suo splendido manto nero perchè beve solo caffè mentre galoppa alla destra di Manitù nelle praterie sconfinate dei cieli. Ho mangiato la “pastisada de caval” che, è inutile negarlo, è semplicemente, incommensurabilmente, prodigiosamente e qualunquemente buona. Sono stato male per un po’ come avessi peccato: me l’avevano spacciato per uno stufato di carne bovina alla valpolicellese, cotto nell’amarone ecc. Sentivo che era diverso. Ma ero già alticcio, cotto come un osso de porco nel brodo di gallina senza l'ombra di un dado, incapace di connettere tutti i passaggi, … dai insomma la carne di cavallo è tanto diversa dal normale! Dove erano finite le mie papille gustative? Sotto la lingua? Era impossibile non rendersi conto della differenza. Ma non succederà più.
Mantecato in questo turbinio di emozioni, mentre l’esofago svolgeva la sua parte, era arrivato il momento dei giochi simil-celtici presentati da un gruppo di piloni in gonna scozzese. Squadrette da 4 con nomi del tipo Dis-ubbidienti, Tristi, ecc.. Naturalmente io in verde sotto l’egida dei Taffani (che si scrive con una ‘f’ sola ma … il veronese medio, è noto, sbaglia tutte le doppie e nell’incertezza ne mette alla cazzo anche dove non andrebbero) . Non c’è da andarne fieri. Ora, passi per il lancio del tronco, della corsa con i massi, del lancio della pietra, del far rotolare la botte piena per un percorso disseminato di gomme da trattore … ma è stato il tiro alla fune che mi ha segnato. Mi ha proprio segnato. E’ importante non legarsi alla corda se non debitamente protetti. Ma me ne sono ricordato solo in finale. Corpo di mille satanassi. Amen direbbe una bella bimba che conosco. Awen direbbe un altro dallo spirito celtico innato :D. ‘Aseno’ (e non cavallo) mi ha detto lei.

martedì 16 giugno 2009

Between the click of the light and the start of the dream

Stamattina riflettevo.
Mi sa che un giorno di 25 anni fa Dio si è alzato e aveva voglia di normalità.
Aveva questo bel pensiero in testa (o quello che è) e decise di condividerlo con qualcuno.

Perciò lo prese e lo lanciò verso la Terra.
In quel mentre passeggiava dinoccolato, occhio azzurro, ciuffo inarcato verso l’alto, pallido e vestito di nero un tipo in compagnia della sua band. Avevano il cognome inglese più banale del mondo. Quando i quattro furono colpiti in pieno, furono vorticotizzati dal minipimer dell’ispirazione e composero “Please Please Please Let Me Get What I Want”.
A proposito di cognomi banali. Ieri, in una partita di calcio, c’è stato il festival dei gol segnati da una banda di giocatori con il cognome italiano più diffuso. Lo stesso di un altro campione che ha vinto su un circuito di moto GP all’ultima curva. Lo stesso di un altro che fa sempre sold out ogni volta che fa un concerto. Non c’entra una mazza ma ho cinque minuti e scrivo quello che mi viene in mente.
Tornando a Dio. Quando uno dice le cose in maniera semplice ha sempre il mio apprezzamento.
Perché è un bel sistema per farsi capire. E mi viene spontaneo ascoltare con benevolenza.
E’ un buon momento per cambiare perché vedi, la fortuna che ho avuto può far diventare cattivo un buon uomo. Perciò per favore (3), permettimi (4) di avere ciò che voglio questa volta. Non ho avuto un sogno per tanto tempo perché vedi, la vita che ho avuto può far diventare cattivo un buon uomo. Perciò, per una volta nella vita, permettimi di avere ciò che voglio. Dio sa che sarebbe la prima volta (2)
Qualche tempo dopo Dio accese la radio.
E vide che era cosa buona e giusta.
E diede loro ciò che volevano.
(Il titolo del post è tratto da una canzone dei The Arcade Fire dal titolo No Cars Go)